Eccomi pronta a svelare gli autori dei “gran finali” di cui avete letto nel post precedente relativo alle tecniche di scrittura. Messi così, potevano risultare un po’ avulsi dal contesto, ma l’obiettivo era anche quello di fare qualche riflessione. Riprendo dunque ogni estratto e lo corredo del titolo, del giusto autore o autrice, nonché di una copertina delle molte edizioni con cui sono stati pubblicate, nel tempo, queste storie immortali:

“Lo vedo, in testa a giudici e uomini onorati, accompagnare un fanciullo che porta il mio nome, con una fronte che conosco e i capelli d’oro, in questo posto, ormai bello da vedere, senza più traccia della deturpazione di oggi, e l’odo raccontare al bambino la mia storia, con la voce intenerita e tremante. È una cosa, questa che faccio, molto molto migliore di quante io ne abbia fatte mai; è un riposo, quello dove vado, molto molto migliore di quanti io ne abbia conosciuti mai.”


Si tratta di Racconto di due città di Charles Dickens, un romanzo storico del 1859 (*). Il romanzo è ambientato all’epoca della Rivoluzione Francese, e le due città sono Parigi e Londra, come francesi e inglesi sono i protagonisti della storia.

A parlare in questo finale commovente è Sydney Carton, un avvocato inglese. Dopo una vita dissoluta, e coinvolto nelle vicende drammatiche della famiglia Darnay, Sydney, perfetto sosia di Charles Darnay e innamorato della moglie di lui, Lucie Manette, decide di prenderne il posto per sacrificare la sua vita sulla ghigliottina. Egli prefigura che, un giorno, il luogo cui lo stanno conducendo a morire – place de la Concorde, all’epoca ridenominata place de la Révolution – non avrà più traccia del sangue e dell’orrore che la deturpano.

Il finale si chiude con lo splendore di una morte che lo riscatta da ogni colpa passata e fa venire al lettore un groppo alla gola. Si pensi a come sia particolarmente d’effetto se raffrontato al celeberrimo incipit, in cui, ahimè, possiamo trovare qualche punto di contatto con la realtà presente. Eccolo:

Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l’epoca della fede e l’epoca dell’incredulità, il periodo della luce e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l’inverno della disperazione. Avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi; eravamo tutti diretti al cielo, eravamo tutti diretti a quell’altra parte — a farla breve, gli anni erano così simili ai nostri, che alcuni i quali li conoscevano profondamente sostenevano che, in bene o in male, se ne potesse parlare soltanto al superlativo.



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Il matrimonio fu molto simile ad altri matrimoni nei quali gli sposi non hanno particolare interesse per il lusso e l’ostentazione; e la signora Elton, basandosi sui dettagli forniti dal marito, lo giudicò assai modesto e di gran lunga inferiore al suo. – “Pochissimo raso bianco, pochissimi veli di pizzo; una cosa davvero miserevole! _ Selina sarebbe rimasta stupefatta quando lo avesse saputo.” Ma, a dispetto di queste gravi manchevolezze, gli auguri, le speranze, la certezza, le predizioni del piccolo gruppo di veri amici presenti alla cerimonia, ottennero pieno compimento nella perfetta felicità di quella unione.

Anche qui siamo in Inghilterra, e il titolo del romanzo è Emma di Jane Austen, del 1815. La signorina Emma Woodehouse, bella, intelligente e ricca, si diletta a combinare matrimoni tra le persone a lei più care, trascurando la sua stessa felicità. Spesso e volentieri però combina pasticci, e soprattutto non si accorge che l’uomo che la conosce fin da bambina, e che è un severo critico dei suoi maneggi, Mr Knightley, è profondamente innamorato di lei. Verso la fine del romanzo, grazie ad una serie di circostanze, Emma apre gli occhi sulla verità e finalmente accetta di sposare il suo amico di sempre.

Emma è considerato da molti critici il capolavoro di Jane Austen, addirittura superiore a Orgoglio e Pregiudizio. Se esaminiamo il finale, vediamo che è comunque in linea con l’ambiente elegante e circoscritto della narrazione e la tipologia dei personaggi. Un finale preciso e tranquillo, con qualche notazione sulla moda dell’abito da sposa. Come se l’autrice, con la sua lunga penna d’oca, abbia impresso un bel punto badando a non far sgocciolare la penna.

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“Come per il passato, io m’irriterò facilmente, come mi è accaduto oggi col cocchiere Ivan, non saprò frenarmi nelle discussioni ed esprimerò male a proposito le mie idee, continuerò a sentire che una specie di barriera divide il santuario della mia anima da quello di mia moglie, sarò pronto a rimproverarla acerbamente quando mi faccia provare un attimo di paura, per poi pentirmene, e, come ora, non saprò spiegarmi con la ragione perché io preghi. Eppure pregherò. Eppure, d’ora in poi, la mia vita, indipendentemente da quanto possa avvenire, non soltanto non sarà insensata come prima, ma avrà un vero significato, quello che le verrà dal bene di cui io farò la sua base.”


Qui invece siamo in Russia e a parlare è uno dei personaggi di Anna Karenina di Leon Tolstoj, Konstantin Dmitrič Levin. Questo personaggio è uno dei più complessi del romanzo: un giovane aristocratico serio, introverso, pieno di conflitti spirituali e con un tormentato rapporto con le donne. Quello che è significativo è che la narrazione non si chiude con la morte per suicidio di Anna, ma proprio con le parole di questo personaggio, probabilmente un ritratto dello scrittore

E voi, qual è il finale che vi coinvolge di più, sia come scrittori che come lettori?

(*) A questo proposito vi rimando all’interessantissimo post pubblicato sul sito di Isabel Giustiani sulla genesi e lo sviluppo del romanzo storico, in cui, fra le altre cose, si dice che per essere definito tale secondo i canoni dell’Enciclopedia Britannica “un romanzo deve essere stato scritto almeno cinquanta anni dopo gli eventi descritti, o deve essere stato scritto da un autore che all’epoca di tali eventi non era ancora nato e quindi ha dovuto documentarsi su di essi”. Qui il link.