Quella sera, nella Sala dei Banchetti dal soffitto a
volta di botte, due file di stendardi bianchi col simbolo del regno degli
Innocenti (una mano che impugnava una spada, in verticale, e, sulla punta della
spada, una corona) caddero orizzontalmente sopra le lunghe tavolate unite a
ferro di cavallo. Sotto quegli stendardi, la principessa e le sue compagne
avevano deposto, fra un coperto e l’altro, i fiori della primavera, riuniti in
mazzi, intrecciati in ghirlande o accostati in belle composizioni. Poi avevano
acceso centinaia di candele, ed occhi luminosi s’erano aperti sui tavoli,
sui davanzali, sulle mensole: ciglia di fuoco avevano tremato alle correnti
d’aria, e lacrime di cera erano corse lungo i corpi cilindrici.

Fuori, il
cielo, geloso di tanta bellezza, aveva spalancato ogni finestra, persino la più
lontana, e s’era colmato di stelle, piccole e grandi, luminose e fioche, come
nella notte in cui, venticinque anni prima, insieme al suo gemello, era nato
Aldebaran dei Crudeli. Emozionata, Lyra aveva posto l’ultima ghirlanda di fiori
a cavallo dello scranno che avrebbe dovuto accogliere l’ospite inatteso –
poiché le avevano riferito il motivo della visita di Aldebaran – e tutto era
stato pronto per il banchetto e l’incontro fra i due giovani. Poi era ritornata
nelle sue stanze, a farsi pettinare e vestire per l’occasione, in modo che
rifulgesse come il più bello dei fiori.

Ora, sedeva accanto a lui, osando a malapena volgere la testa, intimidita dalla sua vicinanza e dal suo silenzio, e forse anche un poco delusa: seduto accanto a Lyra, Aldebaran aveva fatto scarso onore alle portate, ascoltato appena le spiritosaggini dei giullari, prestato distrattamente orecchio alle musiche di liuti e pifferi, e applaudito senza calore l’abilità dei giocolieri. Durante tutto il banchetto, inoltre, egli non aveva rivolto una sola parola alla principessa, immerso, o almeno così pareva, in pensieri distanti.
Bottega del Maestro di Folpard van Amerongen (opp. Miniatore fiammingo), Banchetto a corte con suonatori e servitori,
1446-1449 circa. Torino, Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica.
“Sei stata tu, mia signora, a disporre i fiori che
ornano il banchetto di questa sera,” le disse egli d’un tratto, senza guardarla.
La principessa trasalì, ed egli aggiunse con un sorriso, volgendosi a lei: “Non
aver paura. Ho una discreta pratica nella magia ed ho percepito,
grazie ad essa, nella seta di questi fiori, un palpito segreto: il dolce tocco
delle tue mani.” A quelle parole, Lyra avvertì una vibrazione, quasi fosse stata
ella stessa un fiore toccato da dita sapientissime: Aldebaran aveva una voce
profonda – ora morbida come il velluto, ora ferma come una lama di spada, ora
sussurrante come una brezza – di cui si serviva con l’arte d’un incantatore.
Osò appena incontrare gli strani, chiarissimi occhi di Aldebaran, e il loro
riflesso di madreperla; ed egli sorrise di nuovo. Il sorriso attenuò la severità
del suo volto e il mistero delle sue pupille, al che ella ricambiò il sorriso e
si preparò a rispondergli. 
Pochi istanti dopo, i due giovani conversavano
fittamente, sotto l’occhio astioso e incupito di Mira.
***
Chioccia con pulcini, oreficeria longobarda
Museo del Duomo di Monza
Su  invito di Aldebaran, il giorno seguente Lyra entrò in una delle sale del castello, scortata dalle sue ancelle. La sala era ricolma dei doni ch’egli le aveva portato – rotoli di stoffe, antichi volumi, scrigni tempestati di pietre preziose – e, non appena ebbe varcata la soglia della stanza, la principessa si fermò, spalancando gli occhi quasi fosse spaventata da tutti quegli oggetti. V’era una chioccia d’oro con i pulcini che beccavano il grano; un paio di orecchini lunghissimi, composti da pietre dure, posati su un cuscino; un incunabolo con la copertina d’avorio, intagliata di figure. 
Girò attorno lo sguardo, incerta, fino a quando fu attratta da uno scrigno d’oro ornato di pietre dure, tutte incastonate una vicina all’altra; si avvicinò, lo prese, l’aperse e fece di nuovo tanto d’occhi: in esso splendeva un diadema di rubini e diamanti, così fulgido che avrebbe potuto rompere la tenebra più fitta.

Presunto ritratto di Lucrezia Borgia
nella 
Disputa di Santa Caterina del Pinturicchio
(Sala dei Santi, Appartamento Borgia).

In  quel mentre, un’ombra velò la luce della sala, un raggio, dalla finestra, fece scintillare il color viola di un’ametista e Lyra, sollevando il volto, vide Aldebaran, comparso come per incanto vicino a lei. Silenzioso, egli le si accostò, e la sua mano, ornata della pietra viola incastonata in un anello, tolse il diadema dallo scrigno, lo sollevò e glielo pose tra i capelli in un gesto quasi solenne, come un sovrano che intenda incoronare la sua regina. Poi, prese uno specchio rotondo, affinché potesse rimirarsi, glielo mise fra le mani, e lei vide le pietre bianche e rosse del diadema scintillare fra i suoi riccioli castani. Nella sua mente, paragonò lo splendore fragrante dei fiori, di cui le donne degli Innocenti s’adornavano, alla smagliante durezza di quelle gemme. “Un popolo tanto abile nel fabbricare la Bellezza non può essere del tutto crudele,” sussurrò Aldebaran, riferendosi al nome con cui erano noti – e temuti – gli abitanti del Quarto Regno. Lyra annuì, dimenticando che alcuni di quei metalli servivano anche a fabbricare spade, mazze, picche, scudi e lance da guerra.


Colta da un presentimento, la giovane girò lo sguardo: era sola. Al sopraggiungere di Aldebaran, le sue ancelle, contravvenendo agli ordini della regina di non lasciar mai la principessa, s’erano dileguate, come fa un branco di topi che, alla vista d’un gatto, abbandona il compagno più debole o ammalato.

“Permetti che ti faccia vedere altri capolavori della nostra oreficeria,” le disse egli, volgendo il palmo della mano all’insù, in un gesto d’invito irresistibile. La principessa pose la mano candida in quella bruna del principe, e si lasciò docilmente condurre verso altre meraviglie: la malia stava lavorando in lei, implacabile.