“Avvertita dalla balia in lacrime, una sera Bianca sale in camera sua e vi sorprende il bambino, con le mani piene di oggetti rubati. Già da tempo le donne di casa si sono accorte della sparizione continua di suppellettili e gioielli, e in altre case avviene che i fanciulli portino via cose di valore con l’intento di venderle e consegnare il denaro al Frate. Colto in flagrante, Federico ha un attimo di smarrimento, e la madre vede il suo viso soffondersi del rossore colpevole ma onesto del fanciullo. Poi, senza troppi combattimenti interiori, il fanciullo lascia il posto al nuovo adulto che s’è incarnato in lui, e dalla vergogna passa subitamente all’atteggiamento opposto: la sfida. Le dice che i denari che ricaverà dalla vendita di quei beni andranno ai poveri di Dio, e che ella non ha nessun diritto di possederli. Esasperata, Bianca gli strappa di mano ciò che ha rubato, poi lo afferra, lo scuote. Egli si divincola, cercando di riprenderle gli oggetti, prende addirittura a darle dei calci. Nella lotta, una boccetta di essenze cade a terra, si schianta in cento pezzi, e da essi ascende una volatile ma intensa fragranza.

Donna con bambino di Francesco d’Ubertino Verdi,
detto il Bachiacca (1494 – 1557) 

In procinto di soccombere, Federico inizia a profetarle con voce orribile una sequela d’infelicità: sono, le sue, frasi repentine, sconnesse, simili a stilettate vibrate a caso: alcune raggiungono Bianca al cuore, altre la scalfiscono appena… ma, in tutte, ella riconosce la voce stridula di frate Filippo, del domenicano di San Marco che, attraverso quella del bambino, si colma della stessa ira spasmodica di nove anni prima.

Quando la crisi del fanciullo raggiunge l’acme, Federico scoppia in pianto dirotto, si aggrappa al collo della madre, le bagna i capelli di lacrime. Bianca lo stringe a sé, intuendo in quelle lacrime lo sgravarsi di un fardello troppo pesante; e, quasi a riprova della sua età ritrovata, Federico le riempie il viso di baci, con foga e sollievo. La donna lo stringe a sé, sollevata: è ancora suo figlio, allevato in un mondo di poesia, di balli, di viver raffinato… ed il figlio del giovane amante altero e taciturno che lo fece sbocciare nel suo grembo come un fiore d’amore. Colui che sembra essersi dissolto sotto le vesti bianche e nere del domenicano.

* * *

In piazza della Signoria, le torce, facendo ondeggiare nella notte le loro teste di fiamma, s’avvicinano alla catasta. Dopo essersi inchinate all’orribile fantoccio che, dall’alto, sovrasta la piazza, ficcano le loro idre di fuoco fra libri, profumi, quadri, ninnoli. Si rotolano voluttuose nella fragile materia, poi le si gettano sopra per divorarla.

Il fuoco, sulle prime incerto, si leva poi con una fiammata ruggente, che cattura la sottile pergamena, veloce, ne consuma i bordi, l’avvolge in fiamme lanceolate, la purifica in spirali di fuoco. In seguito rosicchia, mangia la tela dei quadri, inghiotte linee e colori. S’insinua allora negli strumenti, penetra nelle loro cavità più segrete, esce, li tocca con dita di fuoco, infine li rompe, li sbriciola, li divora scoppiettando. Nei gioielli riflette la sua terribile luce, quindi s’avventa, geloso della loro bellezza, e li arde in un abbraccio rovente.

Il rogo delle vanità, voluto dal Profeta Savonarola, s’innalza, altissimo, raggiunge il fantoccio in cima alla catasta, lo circonda in cerchi di fumo, lo assale, lo avvolge, lo rende figura di fiamma.”

Rogo di 600 libri ordinato nel 1490
dall’inquisitore Torquemada
“Incapace di assistere oltre, feci per andarmene e mi trovai dinnanzi gli occhi azzurri del frate di San Marco che bruciavano di febbre. Sotto il cappuccio, il suo viso era pallido, tirato, e persino i battiti delle palpebre erano contrazioni dolorose. Spirava, dalla sua persona, una sofferenza intensa, quasi tangibile.

Poco più in là, il rogo continuava a gettare ovunque i suoi sprazzi di luce… finché, d’incanto, quei guizzi irrequieti non si fermarono e, con essi, cessò il movimento convulso del popolo attorno al rogo, ammutolirono canti e suoni.

Qualcosa iniziò a fluire via dai nostri esseri: spariva, come se non fosse mai esistito, il trascorrere degli anni, in un moto a ritroso che ci rendeva a noi stessi. Sfrondate d’ogni gravezza, le nostre anime si ersero l’una di fronte all’altra e, in quella piazza finalmente immobile, si allacciarono, si compenetrarono, nello sciogliersi di una tenerezza struggente e disumana, con l’intensità di un’unione carnale… e Guido alzò la mano verso il mio viso per ripetere un gesto di tanti anni fa…

Poi le sue mascelle si contrassero, le sue labbra si serrarono, ed egli ritrasse la mano. Nera contro le fiamme che riprendevano a guizzare, la sua figura alta e sottile sembrò scaturire dal rogo stesso, come quella d’un demone. Egli tese nuovamente il braccio, mi porse, stavolta, la sua mano scarna da baciare. Le mie ginocchia si rifiutavano di piegarsi, ma il comando scritto nel suo sguardo era irresistibile.

Infine m’inginocchiai e porsi le labbra su quella mano, che egli s’affrettò subito a ritrarre. Come se uscisse trionfatore da una sfida, egli, dopo un’ultima, enigmatica occhiata, si allontanò.

Rimasi inginocchiata, a guardare gli ultimi resti del rogo bruciare.

Sarebbero presto arrivati ben altri roghi.”