La copertina, con la veduta
del vulcano Stromboli al tramonto

A chi legge la raccolta poetica Tra respiro e palpito di Salvatore Dominello sembrerà troppo semplice chiamare in causa la professione che egli svolge:
quella di medico. In realtà, sottovalutare la cosa sarebbe un errore, perché in
molti dei componimenti poetici dell’autore c’è davvero il senso della
concretezza dell’esistenza, quasi della sua organicità, come se la realtà
attorno a lui, a partire dalla natura, assuma la complessità, il mistero e la
qualità di un essere vivente. 



Non è il suo, tuttavia, uno sguardo scientifico o
tecnico, di necessità privo di calore, al contrario. Il paradosso è proprio
questo, vista l’età dell’autore e la sua lunga esperienza professionale ed
umana: quello del tentativo forse inconsapevole di recuperare quella freschezza
nello sguardo, appartenente ad un tempo ormai trascorso, che egli sa di non
possedere più. 


Ecco quindi che troviamo poesie-lettere, in forma di omaggio, dedicate
al padre o alla madre – 
oppure alla sua
terra d’origine, la Calabria (
“Ceneri”),
ed ecco che ritorna quel senso di materialità e di radici – o a personaggi come
immersi nell’alone mitico del ricordo (
Mastro
Turi – “lo scarparo”
) – o alle forme più umili, che davvero si nutrono
dell’amorevole terra stessa (“
Un verme”). Lo sguardo di chi non ha ancora terminato quella lunga fase di stupore propria di un’anima molto giovane, e ancora inesperta, però, è destinato a velarsi, e il tono poetico a farsi amaro. Non solo di fronte alle varie e multiformi ingiustizie della vita, ai compromessi più ignobili tra i corrotti, al soccombere dei deboli in un tessuto sociale ormai sfilacciato – ma anche rispetto all’incomprensibile presenza della sofferenza e del dolore, o della morte prematura.

Appartenenti a questo filone troviamo dunque “Clochard” (un’esistenza alla deriva, “tramonti senza aurore”), “La strada e il binario” (che riporta le memorie della fanciullezza, ma coniuga l’orrore dell’Olocausto alla visione dei lavoratori neri a Rosarno,  la brutale realtà di vite “come fuscelli”), “Il tunnel” (il “film muto” della depressione), “Centauro” (ispirata all’incidente in cui perse la vita Simoncelli), e da questo sguardo mutato deriva l’incomprensione dell’autore, e la sua conseguente ribellione. La
differenza tra lo sguardo puro dell’adolescente e quello amaro, giudicante dell’adulto
si è fatta ormai dolorosa, e l’esistenza sembra svuotarsi di un suo senso.

Centauro 
Echeggia un grido nel cielo, 
romba il motore sul fuggente asfalto, 
un’impennata, 
lo schianto, 
un boato! 
Ed improvviso il silenzio! 
Nel cielo uno squarcio! 
Non era ancora il tempo del traguardo. 
(maggio 2012)

Simoncelli sulla Honda RC212V a Laguna Seca
nel Gran Premio degli Stati Uniti d’America del 2010
(Fonte: motoracereports – Picasa, Licenza Creative Commons)

Di più, questo processo comporta sia la perdita di identità nella malattia mentale (“L’astratto”) sia del significato del
proprio operare nel mondo (“Nell’anima”);
da qui la scelta e l’insorgere di frasi o vocaboli avviliti, o dal sapore
mercenario (“un corpo senza ali”, “giannizzero”, “mi abbarbico dentro”…). Il
poeta pare sul punto di soccombere, di lasciarsi andare, almeno in senso
metafisico, come una di quelle esistenze smarrite che ha rese protagoniste dei
suoi componimenti poetici più toccanti. Ma si rivelano attimi passeggeri, subito
superati: e la concretezza dell’autore gli viene in soccorso, il suo sguardo
ritorna fattivo, il suo bisogno di agire gli riporta forza nel componimento
poetico. Si riprende a percorrere il cammino
(“Il rumore della vita”, “Dentro
la luce di un giorno”
). 

Gustave Courbet (1819-1877)
The Wounded Man Between 1844 and 1854
Oil on canvas H. 81,5 ; L. 97,5 cm 
Paris, Musée d’Orsay© photo RMN 
Nell’anima
Nelle memorie,
inerme e stagnante,
io non so leggere
i segni dei miei sogni,
scivolo via vilmente,
e mi sottraggo,
per non sentirmi stanco,
e mi rannicchio,
mi abbarbico dentro
e più non sento,
distaccato e spento,
avulso dal contesto,
da ignobili insulti,
ostentazioni melense,
tacito e impietrito,
dormo.
                                                                                                                  
E, soprattutto, si comprende come la grande protagonista di questa raccolta sia una sola: la Vita, con la sua energia e il suo flusso incessante. E che il titolo scelto dall’autore – il respiro e il palpito – il primo, intangibile e volatile, il secondo, appena più potente – sia in fondo la celebrazione di questa forza, dall’origine sconosciuta. Essa ci porta sempre avanti, malgrado le nostre resistenze e malinconie, come un’onda dal ritmo incessante… allo stesso modo, nella copertina della raccolta, l’immagine scelta diventa quella dell’esistenza dell’autore. Esistenza nella scabra concretezza della terra, con la sua solidità ma anche con le sue punte aguzze, nella distesa placida delle acque, nella presenza misteriosa del vulcano all’orizzonte, nel chiarore luminoso di un cielo che può essere quello della sera o di una nuova alba.