La  bella copertina del romanzo, che riproduce il quadro “The Young Violinist”, 1916, di George de Forest Brush

L’autrice di questo delicato romanzo, Elizabeth von Arnim, nata a Sydney in Australia  nel 1866 e cresciuta in Inghilterra, fu amica di autori come Katherine Mansfield – di cui era anche cugina – E.M. Forster e H.G. Wells. Si sposò due volte, e fu considerata una delle donne più intelligenti della sua epoca. “La storia di Christine” è un suo romanzo epistolare che raccoglie le lettere di una violinista di talento, inviata a Berlino per ricevere lezioni sotto la guida del maestro Kloster, che scrive all’adorata madre rimasta in Inghilterra. Siamo alle soglie della Prima Guerra Mondiale, nel giugno 1914, e la ragazza ignora che ben presto si troverà ad essere travolta e sbattuta come un fuscello nella tempesta, nel corso di eventi terribili e ben più grandi di lei, nemica in terra nemica.

Il romanzo è particolarmente struggente perché, con una scelta narrativa coraggiosa, l’autrice sceglie di rivelare fin dalle prime righe, per bocca della madre che apre la serie di lettere, che Christine morirà a Stoccarda nell’agosto del 1914 per una broncopolmonite doppia acuta. Durante la lettura del romanzo, quindi, siamo come spettatori, sepolti nell’ombra di un teatro, che assistono al dipanarsi del destino di una ragazza dall’immenso talento, piena di sogni e di speranze per l’avvenire – come potrebbe essere un giovane di qualsiasi epoca – che coltiva la sua arte allo scopo di assicurare a lei e alla madre una certa floridezza economica e anche per dimostrare, con tutta la naturalezza della sua età, che una donna sa suonare e che può vivere del suo lavoro.

“La giovane violinista” di Pierre-Louis-Joseph de Coninck, olio su tela

Alla sua uscita, il romanzo fu accusato di propaganda antitedesca perché attraverso le parole di Christine, prima ospite di un modesto pensionato e poi accolta presso una famiglia dell’alta nobiltà tedesca, è dipinto un ritratto al negativo del popolo germanico, sebbene con molteplici sfumature, sia attraverso i discorsi della gente comune e la sua mentalità, sia attraverso il comportamento ostile tenuto nei confronti di lei in quanto “straniera”, sia attraverso la descrizione delle folle esaltate alla prospettiva della guerra. Bisogna tuttavia sapere che l’autrice perse davvero una figlia in Germania, la sedicenne Felicitas, inviata là per perfezionare i suoi studi musicali. E noi spettatori inosservati sappiamo a priori che non solo la guerra in procinto di scoppiare sarà devastante, ma i milioni di morti e di feriti, le distruzioni e il dolore non saranno ancora sufficienti e che già aleggia potentemente il terribile spirito di morte della Seconda.

Al di là del valore del romanzo, tuttavia, mi piace soffermarmi su un passo particolarmente significativo, che mostra come il delirio collettivo verso la figura dell’uomo forte può ancora colpire la mente delle folle come un’epidemia, facendo leva su pulsioni semplici e primitive. La scena descrive l’apparizione del Kaiser a Berlino, un ometto insignificante in sé, ma paragonabile ad una divinità in quanto investito di poteri imperiali, che si mostra al balcone ed è in procinto di arringare il popolo alle soglie della guerra. Christine scrive alla madre: “Oh, com’è facile infiammare le folle. Sappiamo benissimo quanto ci commuovono anche le più semplici emozioni se qualcosa fa leva sulla nostra parte più sentimentale, quella parte di noi che nonostante il passare degli anni si ritrova sempre abbracciata alle gonne di nostra madre.” E, più avanti: “…la sua oratoria popolare, senza pretese, è ottima. C’erano tutti i paroloni altisonanti, i soliti paroloni che i governanti ambiziosi e avidi pronunciano fin dalla notte dei tempi: Dio, Dovere, Paese, Casa e Famiglia, Mogli, Fanciulli, d nuovo Dio e ancora Dio.” Credo che possiamo farvi sopra una riflessione personale, applicandola agli avvenimenti e ai discorsi politici dei giorni nostri.