Il romanzo recensito in questo post è la nuova edizione de “Lo sguardo di Daithe” di Elodia Saetti, ambientato tra i Celti al tempo delle guerre galliche di Giulio Cesare. Il quadro ad olio che appare in copertina è di Paolo Saetti, artista e padre dell’autrice, e ha come titolo “L’Albero della Vita”.

La copertina del romanzo
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Al di là dell’evidente bravura narrativa dell’autrice nello stendere questo magistrale affresco storico, della trama appassionante e coinvolgente che mischia realtà e fantasia, della sua padronanza nel condurre i dialoghi, della miriade di personaggi che affollano le sue pagine, in questo romanzo assistiamo ad una tremenda collisione di mondi. I Celti, ovvero la tradizione, e una tradizione antichissima, fatta di riti druidici, della lettura dei segni naturali per pronosticare il futuro, dell’arte della guarigione, del valore individuale in battaglia a scapito di una formazione strategica. I Romani, ovvero la modernità, intesa non solo come brutale espansione di conquistatori, ma anche come spregiudicatezza nei commerci e abilità negli affari – l’apparizione dei mercanti per la prima volta, nel villaggio, comunica al lettore un brivido sottile, come di chi abbia visto il filo dal colore stonato in una perfetta tessitura. O il granello destinato ad inceppare il meccanismo.

Simbolo celtico della dea della guerra Morrigan, in una rielaborazione moderna. Questa divinità femminile compariva  sui campi di battaglia, accompagnata da corvi.
Quei Romani di cui uno dei personaggi più importanti, il carismatico druido Elaed, dice con disprezzo che non erano capaci nemmeno di venerare i loro propri dei, come a dire di crearne, ma li avevano presi in prestito dai Greci – in una delle frasi in assoluto più felici del romanzo. E, naturalmente, l’arte della guerra, quell’arte crudelmente descritta nel “De Bello Gallico” da Giulio Cesare, per cui non è più il coraggio del guerriero in battaglia, un coraggio ardente e disordinato, o il numero degli uomini a fare la differenza, ma la tattica studiata con sapienza a tavolino. La mancanza di fantasia religiosa si tramuta in schiacciante superiorità organizzativa, di tipo quasi robotico, e sui campi di battaglia le armate militari romane si muovono con simmetria assoluta, in formazioni rese celeberrime dai film e volumi scolastici. E i Celti, la tradizione, soccombono, travolti dall’incalzare della modernità: le sconfitte si sommano alle sconfitte, gli Dei volgono le spalle, riti e magie risultano inutili, i cerimoniali si svuotano di significato.

Triscele o triskellion (dal greco “tre gambe”) è il simbolo celtico più conosciuto. Racchiude in sé il potere del numero Tre.

In questa nuova edizione l’autrice dà maggiore rilievo a Vercingetorix, il loro capo, una figura dove il carisma e il sacro si confondono nel mito, all’ombra di un destino ammantato di una sua tragica bellezza: una nascita benedetta dal favore degli dei, eppure oscurata da una cattiva stella nella sua fine. Vercingetorix è giovane, forte, potente, amato, ed è l’unico in grado di alleare le tribù celtiche, dilaniate da contrasti e dissidi; eppure appartiene anche lui al mondo della tradizione e dell’immobilità. A ciò che, in una parola, è vecchio. E il duello a distanza tra lui e il suo avversario e contraltare, Giulio Cesare, assume i connotati di un combattimento tra due titani dove già sappiamo che proprio Vercingetorix, il giovane-vecchio, è destinato a soccombere. Se ne va quindi dalle pagine del romanzo, e dalla nostra immaginazione di lettori, lasciando il suo popolo sconfitto a fare i conti con il destino. 

“Vercingetorix getta le armi ai piedi di Giulio Cesare”, dipinto a olio del 1899, Musée Crozatier  
Così anche tra i protagonisti – giovani donne, bardi, sacerdotesse, guerrieri, druidi, guaritori, capi celtici, contadini – comincia a serpeggiare una sorta di tormento esistenziale di fronte al dissolversi delle certezze e del mondo così come è stato conosciuto fino a quel momento. Quasi che questa modernità che rende i Vinti “fuori registro” rispetto alla Storia, pervadendo anche il loro linguaggio, li renda simili a coloro che li hanno abbattuti, i Vincitori. Nell’ultima, più cocente delle sconfitte.