—-
Al di là dell’evidente bravura narrativa dell’autrice nello stendere questo magistrale affresco storico, della trama appassionante e coinvolgente che mischia realtà e fantasia, della sua padronanza nel condurre i dialoghi, della miriade di personaggi che affollano le sue pagine, in questo romanzo assistiamo ad una tremenda collisione di mondi. I Celti, ovvero la tradizione, e una tradizione antichissima, fatta di riti druidici, della lettura dei segni naturali per pronosticare il futuro, dell’arte della guarigione, del valore individuale in battaglia a scapito di una formazione strategica. I Romani, ovvero la modernità, intesa non solo come brutale espansione di conquistatori, ma anche come spregiudicatezza nei commerci e abilità negli affari – l’apparizione dei mercanti per la prima volta, nel villaggio, comunica al lettore un brivido sottile, come di chi abbia visto il filo dal colore stonato in una perfetta tessitura. O il granello destinato ad inceppare il meccanismo.
|
Simbolo celtico della dea della guerra Morrigan, in una rielaborazione moderna. Questa divinità femminile compariva sui campi di battaglia, accompagnata da corvi. |
Quei Romani di cui uno dei personaggi più importanti, il carismatico druido Elaed, dice con disprezzo che non erano capaci nemmeno di venerare i loro propri dei, come a dire di crearne, ma li avevano presi in prestito dai Greci – in una delle frasi in assoluto più felici del romanzo. E, naturalmente, l’arte della guerra, quell’arte crudelmente descritta nel “
De Bello Gallico” da Giulio Cesare, per cui non è più il coraggio del guerriero in battaglia, un coraggio ardente e disordinato, o il numero degli uomini a fare la differenza, ma la tattica studiata con sapienza a tavolino. La mancanza di fantasia religiosa si tramuta in schiacciante superiorità organizzativa, di tipo quasi robotico, e sui campi di battaglia le armate militari romane si muovono con simmetria assoluta, in formazioni rese celeberrime dai film e volumi scolastici. E i Celti, la tradizione, soccombono, travolti dall’incalzare della modernità: le sconfitte si sommano alle sconfitte, gli Dei volgono le spalle, riti e magie risultano inutili, i cerimoniali si svuotano di significato.
|
Triscele o triskellion (dal greco “tre gambe”) è il simbolo celtico più conosciuto. Racchiude in sé il potere del numero Tre. |
In questa nuova edizione l’autrice dà maggiore rilievo a Vercingetorix, il loro capo, una figura dove il carisma e il sacro si confondono nel mito, all’ombra di un destino ammantato di una sua tragica bellezza: una nascita benedetta dal favore degli dei, eppure oscurata da una cattiva stella nella sua fine. Vercingetorix è giovane, forte, potente, amato, ed è l’unico in grado di alleare le tribù celtiche, dilaniate da contrasti e dissidi; eppure appartiene anche lui al mondo della tradizione e dell’immobilità. A ciò che, in una parola, è vecchio. E il duello a distanza tra lui e il suo avversario e contraltare, Giulio Cesare, assume i connotati di un combattimento tra due titani dove già sappiamo che proprio Vercingetorix, il giovane-vecchio, è destinato a soccombere. Se ne va quindi dalle pagine del romanzo, e dalla nostra immaginazione di lettori, lasciando il suo popolo sconfitto a fare i conti con il destino.
|
“Vercingetorix getta le armi ai piedi di Giulio Cesare”, dipinto a olio del 1899, Musée Crozatier |
Così anche tra i protagonisti – giovani donne, bardi, sacerdotesse, guerrieri, druidi, guaritori, capi celtici, contadini – comincia a serpeggiare una sorta di tormento esistenziale di fronte al dissolversi delle certezze e del mondo così come è stato conosciuto fino a quel momento. Quasi che questa modernità che rende i Vinti “fuori registro” rispetto alla Storia, pervadendo anche il loro linguaggio, li renda simili a coloro che li hanno abbattuti, i Vincitori. Nell’ultima, più cocente delle sconfitte.