“L’Uomo in Nero fuggì nel deserto, ed il pistolero lo seguì.” Con questo bell’incipit inizia il romanzo “L’ultimo cavaliere” di Stephen King, che ho avuto l’avventura di leggere in questi giorni. King è conosciuto per la sua prolifica produzione di letteratura di genere horror (a torto considerata di serie B, come la fantascienza), ma è anche uno scrittore eccellente, per quel poco che ho potuto leggere, e la sua fama non ha certo bisogno di essere corroborata da una mia recensione.

Questo suo romanzo dà il via alla saga fantasy cosiddetta della Torre Nera che ha come protagonista il pistolero-cavaliere Roland. Affascinante e solitario, egli prende ad inseguire un misterioso Uomo in Nero, che sembra avere un’età antichissima ed è in possesso di poteri di vita e di morte, non solo per avere con lui una resa dei conti ma per ottenere risposte a domande che lo assillano. I protagonisti della storia fluttuano tra mondi a noi lontani e pur familiari, come se la terra avesse attraversato una sorta di cataclisma o di periodo post-atomico di cui però non ha più memoria.

I paesaggi sono deserti, allucinati e colmi di desolazione, con poche, minacciose presenze. Tutto diventa simbolo ed arcano. Alcuni luoghi assumono la funzione di oracoli, e sono disseminati di scheletri e ossa calcinate. Nelle casupole ai margini del deserto vi sono demoni abitatori di cantine. Non pare esservi possibilità di legami d’amore o d’amicizia, come quello ad esempio che Roland instaura con il bambino Jake, incontrato cammin facendo, ma solo esigenze di mera sopravvivenza. È una visione del mondo per nulla consolatoria, quella di King, dove nelle pieghe della quotidianità si insinua ed emerge la nota stridente, la mostruosità, il colore nero, il bagliore di una lama metallica o di un ultimo sole. Come a rammentarci che anche noi, come Roland, siamo viandanti di passaggio all’inseguimento di un nemico senza identità.